Kamikaze ( Rock & Roll ) Suicide e altre ‘devianze’

Prendiamo a prestito il titolo di un celebre pezzo di Donatella Rettore, per presentare una breve e non esaustiva rassegna di studi scientifici inerenti il rapporto fra arti marziali e istinti aggressivi e/o quelli suicidi.

di Caterina Marmo

Se si pensa al Giappone antico e ai suoi guerrieri, è facile ricordarsi del seppuku, il suicidio rituale in uso fra i samurai che prevedeva il taglio del ventre. Era la via per sfuggire a morte certa, o per espiare una colpa disonorevole, o per seguire il destino del proprio signore. La pancia veniva scelta per il colpo mortale perché considerata la sede dell’anima. In questo modo si mostrava a chi assisteva tutta la propria purezza di cuore.

La variante femminile consisteva nel taglio alla gola, dopo la legatura dei piedi, per evitare pose sconvenienti durante l’agonia.

Non vogliamo occuparci di questo, ma dell’ eventuale correlazione fra aspirazione al suicidio e/o comportamenti aggressivi, e la pratica delle arti marziali oggi.

I risultati di uno studio apposito, realizzato su un campione di adolescenti negli Stati Uniti, non identificano una associazione fra assunzione di alcol o di droga, fumo, deviazioni sessuali e suicidio, e le arti marziali – specie con l’intensità e la lunghezza della pratica abituale.

Piuttosto si osserva una differenza dovuta all’età dei soggetti; i più inclini a commettere suicidio sono i giovanissimi. Non c’è invece diversità legata al genere; i dati per maschi e femmine grosso modo si equivalgono.

Si può ipotizzare un impatto positivo della filosofia delle arti marziali, poichè rispetto ai coetanei la gran parte dei praticanti ha rilevato che l’atmosfera del dojo e i principi dell’allenamento producono benefici sostanziali sul fisico e sulla psiche.

Uriel B. Adler, docente di Psicologia presso la Pace University, ha scavato nella predisposizione all’aggressività nei karateka, che potrebbe portare a bullismo o a vera crudeltà – e a reazioni inconsulte nelle vittime, come appunto il suicidio. Il suo lavoro si è basato su questionari somministrati ai praticanti, elaborati in ricerche risalenti all’inizio degli anni ’90. Le domande vertevano sull’ aderenza ai valori tradizionali – fra cui il rispetto reciproco e quello delle regole – e su variabili attinenti l’allenamento: orario; frequenza; livello della cintura; intensità; impegno; pratica meditativa; maggior enfasi su kumite o kata; stile tradizionale o meno; tolleranza alle frustrazioni; ricerca del contatto fisico nel combattimento. In aggiunta, Adler ha esaminato alcune caratteristiche personali degli individui del campione come la presenza di ansia o depressione, somatizzazione, deficit di attenzione, bassa autostima e la percezione della propria immagine fisica. Le sue scoperte si sono rivelate piuttosto interessanti; per esempio gli specialisti del kata sono meno condizionabili da variabili esterne, e quindi più tranquilli e immuni a simpatie delinquenziali. Grazie anche alla maggiore importanza che conferiscono all’ideale del rispetto.

In generale, l’alta intensità dell’allenamento corrisponde a  un grado di sopportazione maggiore delle frustrazioni, e minore o inesistente aggressività. Nè il livello di preparazione raggiunto, né la cintura sembrano influire su pensieri o comportamenti violenti – diversamente da quanto sostenevano studi precedenti.  C’è invece  un comportamento diverso – per quanto i valori restino bassi – tra chi predilige nel kumite un training più tradizionale, e chi opta per tecniche di attacco e di difesa ‘pesanti’ e un contatto fisico meno ‘limitato’.

Ma nei dojo, o nei forum dedicati alle arti marziali, si parla di questi argomenti in maniera specifica, si fa prevenzione? A parte la  reticenza degli adulti per il timore di spaventare i ragazzini, nelle Americhe molto è dipeso dalla popolarità delle teorie del Prof. Stephen Platts. Egli riteneva che a livello generale nella popolazione fossero maggiormente a rischio di suicidio i maschi in età adulta – tra i 35 ei 55 anni.

Così certi discorsi sono rari, e partono di solito da brutte esperienze scolastiche degli allievi delle palestre – bullismo o approccio con la droga.

In sintesi, ci sono 2 scuole di pensiero e di ammaestramento da parte degli istruttori. La prima afferma che l’artista marziale se si sforza abbastanza può controllare la propria vita e impedire derive tragiche, come una dipendenza da sostanze, autolesionismo o violenza. Come diceva Bruce Lee: “L’emozione può essere il tuo nemico; se ti concedi a lei, ti perdi.”

Il contraltare è che se la persona ‘fallisce’, non essendo capace di autocontrollo, la colpa è soltanto sua. Per la seconda invece, il suicidio è una sorta di misura estrema che si identifica con un supremo sacrificio; quindi è da escludere come risposta alle sollecitazioni della quotidianità.

A proposito del primo assunto, un’ indagine condotta in Israele da Anna Harwood e Michal Lavidor della Bar-Ilan University, parallela a una ricerca della UCLA statunitense, conferma un evidente calo della rabbia e degli atteggiamenti ostili fra chi pratica arti marziali, presente in 12 studi documentati su 300. Indipendentemente da età, sesso, luogo di pratica, durata, singola disciplina o mix di arti marziali. Con una sola eccezione, quella del judo, che nei casi presi in esame non includeva sessioni di meditazione e consigli sull’autocontrollo. Purtroppo i risultati di alcune fra le ricerche di partenza peccavano in affidabilità.

Images for Stock_Karate on 20180906 in Miami, FL at the Brickell Karate / photo taken by Anthony Moreira.

 

Gli studiosi concordano comunque nel sostenere che un percorso ben articolato nelle arti marziali potrebbe aiutare i bambini e i ragazzi ‘problematici’, più di programmi di self help o terapie  psicologiche centrate su colloqui – dove spesso questi pazienti non sono abbastanza collaborativi. Col bonus del rilascio di endorfine, che riducono fatica e dolore, migliorando l’umore; e della proteina BDNF, che ripara i neuroni e quindi potenzia la memoria.

Alla luce di tutto ciò, si può essere d’accordo col personaggio di Mr Miyagi in ‘The Karate Kid’, per cui la lezione non è solo il karate, o la disciplina marziale; la lezione che riceviamo..è per tutta la vita.

 

FONTI :

The School Repository – Loma Linda University, 2013 – Theses, Dissertaction and Projects – Adolescent Participation in Traditional Martial Arts – Effect of training on Risk Behaviors  and Psycological Wellbeing. A cura della Dott.ssa Stephanie Anne Devor Goldsmith.

Adler, Uriel B, “Karate and mental health: Can the practice of a martial art reduce aggressive tendencies?” (2003). ETD Collection for Pace University. AAI3080475.

https://digitalcommons.pace.edu/dissertations/AAI3080475

https://martialarts.stackexchange.com/questions/7298/how-does-martial-arts-philosophy-consider

-suicide

https://digest.bps.org.uk/2017/08/07/the-art-of-not-fighting-martial-arts-reduce-child-and-teen-aggression/

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