KARATE E ISLAM

Il karate nel mondo islamico, presenza di rilievo ieri come oggi

di Caterina Marmo

Se si pensa a musulmani che combattono, di solito si guarda al passato, alle orde di saraceni al comando del Feroce Saladino, oppure agli jihadisti d’oggi. Certo non agli artisti marziali. Eppure, le arti marziali sono una componente rilevante della cultura e delloZhu_Yuanzhang sport agonistico nei Paesi islamici, dove per popolarità vengono subito dopo il calcio e la pallavolo. Lo stesso Profeta consigliava ai suoi discepoli di indirizzare i figli ad attività fisiche come nuoto, tiro con l’arco, monta a cavallo, per tenere sotto controllo salute e impulsi egoistici. Ricordiamo che da secoli in Malaysia e in Indonesia i musulmani praticano arti marziali come Silat, che si ispirano ai combattimenti degli animali. In Cina gli islamici hanno contribuito allo sviluppo del Kung Fu. L’Imperatore Zhu Yuanzhang, fondatore della dinastia Ming, ha avuto 6 musulmani fra i suoi più fidati comandanti militari; erano tutti Wunshhu, maestri di arti marziali.

In generale la pratica sportiva trova nell’osservanza stretta della fede islamica un ostacolo, perché spesso gli atleti sono ‘impudicamente’ scoperti. Agli atleti è raccomandato un abbigliamento castigato, e sono banditi gli atteggiamenti fanatici. Pensiamo a quanto è successo in Iran all’atto della qualificazione del “Team Melli” alla fase finale dei Mondiali brasiliani di calcio 2014. Diversi mullah – maestri/custodi di moschee – hanno visto nello spettacolo della partita decisiva e nel comportamento dei tifosi una manifestazione di riprovevole annebbiamento della mente. D’altra parte: «Molti musulmani dimenticano che il Corano rappresenta la struttura politica e culturale dell’Arabia del VII secolo» afferma lo scrittore egiziano Nasr Abu Zayd. Grazie a un’ accorta politica comunicativa della federazione, i giocatori iraniani hanno ritrovato il sostegno compatto del proprio pubblico.

Il karate è un’arte marziale di importazione, ma secondo Sheikh Ahmad Kutty – docente all’Università canadese di Toronto e considerato fra le menti più influenti dell’Islamismo mondiale – la sua pratica è permessa, «a condizione di rifiutare la filosofia orientale che vi è associata» . È favorito dal fatto che gli atleti indossano una divisa lunga e coprente. Inoltre, salvo rare eccezioni, concorrenti e pubblico non si lasciano andare a dimostrazioni di tifo ineducate o violente. Anzi, gli incitamenti ai concorrenti e le espressioni di giubilo sui social network e sui siti ufficiali delle federazioni, nei Paesi islamici somigliano a preghiere. Di più, all’inizio e al termine delle competizioni i componenti delle squadre musulmane, fieramente avversarie sul tatami, fraternizzano volentieri abbracciandosi calorosamente o scattando foto ricordo assieme, pure quando rappresentano Paesi politicamente e religiosamente distanti – come la Turchia sunnita e l’Iran sciita.

Di rado i karateka si lasciano andare a ostentazioni di vanità, del tipo posare per selfie mostrando i muscoli, come spesso avviene in Occidente. Al contrario, alcuni di loro esibiscono fieramente il proprio credo; espressione di una cultura diffusa, vedi citazioni di testi sacri o gli auguri per specifiche occasioni di festa, ma anche di una tradizione familiare. Emblematico il caso dei Sofuoğlu; la radice del loro cognome è la stessa della parola Sufi – i mistici musulmani – e significa ‘devoto’. La fede praticata è testimoniata dalla storia di questa famiglia turca, in cui si trovano insegnanti, poeti e religiosi insieme a brillanti atleti marziali.

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Tornando al vestiario, passiamo alle donne; moralità e decenza vanno osservate, ma le ragazze della nazionale saudita di karate hanno ottenuto di poter gareggiare senza velo. È una vera rivoluzione, se perfino i muftì del Qatar, giuristi che passano per liberali, prescrivono alle agoniste corpo coperto, divieto di concedersi alle telecamere e di disputare gare in presenza di uomini. Insomma, questo sport ha dato un concreto contributo all’emancipazione femminile. Al karate come strumento principe di autodifesa è giunto un riconoscimento di uno dei più influenti pensatori del mondo islamico, l’Imam turco Fethullah Gulen – attualmente in esilio volontario negli USA a causa di forti contrasti col presidente Erdogan. La sua fatwa autorizza le donne sposate a mariti violenti a utilizzarlo per legittima difesa, e per restituire i danni subiti. Il documento è stato recepito in Egitto e in Arabia Saudita, dove lo sceicco Mohsen al Obeikan, consigliere del Ministro della Giustizia, ha spiegato di aver rintracciato riferimenti al principio di autodifesa nel Corano, nella Sharia – il complesso di norme giuridiche/sociali fondate sulla dottrina coranica – e nelle Hadith – racconti sulla vita di Maometto che costituiscono la Sunna, altra fonte della Legge Islamica. Solo alcuni opinionisti conservatori hanno osato contestarla, temendo che la fatwa potesse scatenare la ribellione all’interno delle famiglie.

Passando ad aspetti squisitamente spirituali, secondo l’inviata dell’Huffington Post Daliah Merzaban i musulmani condividono un’ambizione: forgiare un legame intimo con la divinità attraverso la pace della mente, allineando alla meta primaria tutto ciò di cui si occupano nel mondo. Senza dimenticare la solidarietà verso gli altri. Sono ideali simili a quelli presenti nella cultura originaria del karate.

L’arte della mano vuota enfatizza l’addestramento ripetitivo e la precisione nei movimenti, caratteristiche che si ritrovano nei riti islamici di preghiera – orari fissi, 5 volte al giorno. Merzaban scrive che per un artista marziale musulmano l’obiettivo vero è la perfezione, che è il modo migliore per compiacere Dio. Da ottenere con l’uso della fermezza, dell’autocritica, dell’aspirazione a migliorarsi e soprattutto dell’umiltà – principio dell’Al Insan Al Kamil, nella teologia islamica. Ci sono però alcune pratiche nel karate che sono in contrasto con la Sharia, come colpire il volto dell’avversario – nel kumite – e soprattutto inchinarsi durante i saluti, davanti ai giudici e al proprio rivale diretto. In teoria, un buon musulmano dovrebbe omaggiare così soltanto Allah. Vero è che l’inchino nel karate non raggiunge mai il livello della prostrazione – suyud – a Dio durante la preghiera. A dirimere la questione ci ha pensato Sheikh Faysal Mawlawi, responsabile dello European Council for Fatwa and Research, sostenendo che se l’inchino è solo un gesto di mutuo rispetto tra i concorrenti o verso gli arbitri, per un musulmano è possibile dedicarsi all’agonismo. Non a caso il karate è stato inserito tra le discipline degli Islamic Games fin dalla prima edizione del 2005.

Quanto all’osservanza del Ramadan – il mese del digiuno e dell’astinenza anche dall’acqua – agli sportivi professionisti è concessa una certa flessibilità: può essere meno rigido, oppure l’allenatore può decidere se far gareggiare o meno in quel periodo gli atleti musulmani.

Comunque la pratica del karate non può essere considerata la via d’eccellenza per apprendere la religione islamica, non sostituisce un’istruzione specifica in materia. Sicuramente, può aiutare a integrare nei vari aspetti della vita quotidiana le qualità che fanno di un essere umano un vero credente. Gilles Kepel, orientalista francese, pensa che la lettura dottrinaria dello sport faccia parte della fitna, la contrapposizione fra oscurantismo e modernità che lacera il mondo musulmano d’oggi. Specchio di quella fra Oriente e Occidente, che ha spinto qualcuno a parlare di conflitto di civiltà. Il karate in ogni sua dimensione – soprattutto quella sportiva – per fortuna continua a rivelarsi un formidabile veicolo di aggregazione fra popoli e culture diverse, pur in presenza di una realtà che sembra ostile.

Caterina Marmo

 

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