Note su Jannacci e il Karate

Note su Jannacci e il Karate

di Caterina Marmo

VINCENZINO E IL KARATE – un piccolo omaggio a Enzo Jannacci

El portava i scarp del tennis, raccontava del suo amico Armando, urlava al mondo che voleva partecipare: “ Vengo anch’io!”, e si sentiva rispondere sempre di no. Cantava; firmava pezzi per altri, in sintonia soprattutto con voci femminili come quelle di Mina e di Milva; interpretava colonne sonore – pensiamo a ‘Vincenzina e la fabbrica’, scritta col grande cronista sportivo Beppe Viola per ‘Romanzo popolare’ di Mario Monicelli – e recitava anche, in film, in spot televisivi. La sua cifra costante era una stralunata, spesso ficcante e molto amara ironia. L’essere giudicato un po’ matto e fondamentalmente anarchico rispetto al mondo discografico l’aveva allontanato dalle classifiche, dopo anni di successi anche commerciali, ma aveva mantenuto comunque una popolarità diffusa. La sua Milano l’ha pianto e continua a ricordarlo, dopo la morte, grazie alla custodia e alla diffusione della sua memoria da parte del figlio jazzista Paolo.

Montanari_JannacciParliamo di Vincenzo Jannacci detto Enzo, e ne parliamo qui perché come qualcuno sa – ma molti ignorano – era un patito di sport: amava correre in moto, senza casco dato che regolarmente se lo dimenticava; giocava a calcio come terzino fluidificante nella squadra di ‘Radio Popolare’ disputando diversi tornei; ma era appassionato in particolar modo di arti marziali, prima judo e poi soprattutto karate. Il suo stile era lo Shotokan, praticava kumite, e raggiunse il grado di cintura nera terzo DAN.

L’artista che si faceva ritrarre in versione Nembo Kid, mostrando i muscoli, per la copertina di ‘Discogreve’, aveva mosso i suoi primi passi in palestra perchè vittima dei bulli, per il suo fisico mingherlino e gli occhiali spessi. Il giornalista Giorgio Maimone, anni dopo, lo paragonò a Clark Kent, il personaggio timido e impacciato dei fumetti dietro il quale si cela Superman. Quei bulli che lo tormentavano erano, secondo Jannacci, più folcloristici che pericolosi rispetto a quelli di oggi, ma comunque una minaccia alla sua tranquillità personale. Così, appena ne ebbe la possibilità, grazie a un amico cominciò a frequentare un dojo, e rimase talmente preso e coinvolto dal karate, da scegliere di diventare anche istruttore. Suo maestro all’epoca fu il leggendario Hiroshi Shirai, uno degli studenti universitari che la JKA, società karateistica giapponese, spedì nei diversi Paesi occidentali a portare il seme della disciplina. Shirai, classe 1937, fondatore e direttore tecnico della FIKTA, è considerato una leggenda vivente, cintura nera 10° DAN, tuttora in attività come insegnante.

Jannacci per anni continuò a frequentare la palestra milanese di via Petrarca, dove insegnava il maestro Enzo Montanari, e dove aveva iscritto il figlio, allora dodicenne. Spesso si fermava a guardare i suoi allenamenti, e più d’uno lo ricorda, con lo sguardo un po’ triste di padre severo ma affettuoso, osservarne le movenze sul tatami.

La sua presenza nel dojo, e la sua competenza, diventavano spesso il pretesto per gli allenatori per modificare i programmi di lezione, inserendo la ripetizione fino all’esasperazione di serie di complesse tecniche di pugno e di calcio. Come istruttore, Jannacci era serissimo, usciva dai panni del suo personaggio e reprimeva qualsiasi tentativo di distrazione. E curiosamente, il suo linguaggio era più comprensibile quando usava il giapponese per esprimersi, che non quando parlava in italiano.

Gino e Michele, i due famosi autori comici, devono alle ore passate con lui in palestra l’inizio della loro carriera, la scoperta della vocazione di far ridere. A quel tempo realizzavano praticamente per hobby un programma radiofonico in onda su ‘Radio Popolare’, intitolato ‘Orecchio’, per fare il verso al quotidiano guidato da Maurizio Costanzo, ‘L’occhio’, che non ebbe molta fortuna. Facendosi coraggio, chiesero a Jannacci se poteva comporre per loro una sigla. Generosamente, nonostante fosse impegnato in sala di registrazione per un suo album, sensibile com’era all’informazione alternativa e per simpatia verso i suoi allievi karateka, il loro maestro si mise all’opera, e nacque ‘Ci vuole orecchio’, uno dei suoi brani più conosciuti.

Altro personaggio noto che frequentava lo stesso dojo del musicista milanese, era il critico musicale Enzo Gentile. Testimonia che il maestro Shirai, interrogato sul valore di Jannacci come karateka in occasione di un’intervista, rispose che Enzo era davvero forte nonostante le apparenze; quando picchiava, buttava giù gli avversari.

Sicuramente, oltre al duro addestramento, avevano inciso sulla formazione umana di Jannacci anche le lunghe ore di meditazione Zen, e lo studio della filosofia buddista, d’aiuto per lui nella ricerca della pace interiore. Il karate, oltre che strumento di autodifesa e scuola di vita, fu una fonte di ispirazione per il suo lavoro d’artista, tanto che gli dedicò una canzone, inclusa in uno dei suoi album più belli, ‘Quelli che…’ E’ una specie di monologo, che descrive il ‘karatè’ come un gioco d’invenzione cinese, che i giapponesi hanno esasperato e drammatizzato, ed elenca le caratteristiche che ogni buon karateka deve possedere per essere considerato tale. Alcune sono assurde in verità, per esempio conoscere l’indirizzo segreto del gerarca nazista Martin Bormann, o sentirsi italiani, però solo ‘dendro’; altre tremendamente serie, come l’ultima citata: credere, in sé stessi, e nel significato di quello che si fa. Ciò che appunto ha fatto Jannacci, durante tutta la sua esistenza terrena.

CATERINA MARMO

 

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